Per ricordare il magico ritorno in Italia di Peter Gabriel con il concerto che ha incantato l'Arena di Verona il 26 settembre, vi propongo alcuni video e la lettura di queste due recensioni molto interessanti tratte dal web ....
(recensione di Camilla Bertoni del Corriere del Veneto in data 27 settembre 2010 )
La sensazione è che, fosse stato per lui, l'avrebbe anche rifatto quel tuffo. Quel tuffo sulla folla che lo applaudiva all'Arena di Verona una sera di settembre di ventitré anni fa. Ma non sono più i tempi, non è più il contesto, e nemmeno il suo peso sarebbe stato più quello di allora a dire il vero. La sua voce invece non è cambiata, e ha conquistato gli spettatori che domenica 26 settembre hanno riempito l'Arena per il grande ritorno di Peter Gabriel, un concerto che ha tenuto tutti sul filo delle emozioni per quasi tre ore. Solo pochi tra il pubblico non hanno saputo apprezzare l'ex dei Genesis nella nuova versione orchestrale, perché sul palco non c'erano né chitarre elettriche né batteria, ma «solo» la New Blood Orchestra - diretta dal maestro Ben Foster -, il nome del tour per il quale la tappa a Verona (organizzata da Eventi) ha rappresentato l'unica italiana. Graziato dalla pioggia e iniziato con quasi un'ora di ritardo, il concerto ha regalato agli spettatori due parti, la prima con le dodici cover dell'ultimo disco, «Scratch my back», con Peter Gabriel affiancato dalle due vocalist, la figlia Melanie e Ane Brun. Con gli arrangiamenti di John Metcalfe e con il supporto di una suggestiva scenografia digitale, il concerto è continuato poi con una serie di brani storici, rivisitati nella nuova versione orchestrale. Quando si arriva a «Solsbury hill» Peter Gabriel invita tutti ad alzarsi, e sembrava che il pubblico non aspettasse altro dopo la commozione con «Red rain» e «Blood of Eden». Poi arriva «In your Eyes» e infine ad Ane Brun tocca sostenere il paragone con Kate Bush e duettare con Peter in «Don't give up», l'ultimo dei bis con i quali il concerto si è chiuso. E a pensare che si era aperto con Peter Gabriel che, in italiano, è salito sul palco dicendo, «ciao, è passato molto tempo», la sfida con quel mitico concerto di ventitré anni ci è sembrata vinta.
(Recensione di Alfredo Marziano pubblicata su Rockol.it )
Sull’ultimo disco di cover e sul tour orchestrale “no drums, no guitars” i fan di Peter Gabriel si sono divisi, molti sostenitori ma anche qualche detrattore. Il pubblico presente ieri sera all’Arena di Verona (molto numeroso, a differenza di quanto sta accadendo in altre date del tour europeo: colpa dei prezzi molto salati, probabilmente, anche se l’entourage dell’artista ha accusato alcuni promoter di cattiva promozione) non è sembrato d’altra parte avere molti dubbi: pollice alzato per Peter e per la sua scoppiettante New Blood Orchestra, anche se dagli urletti di approvazione, dai battimani e dalle standing ovations è chiaro che tutti – magari anche Zucchero, avvistato in platea – erano lì per ascoltare soprattutto la seconda parte dello show, quella riservata al repertorio riarrangiato per ensemble di archi ed ottoni.
Anche dal vivo “Scratch my back” si è rivelato un disco intrigante ma ostico, a tratti poco comunicativo. D’altronde – con l’album e con il tour – Gabriel ha fatto una volta ancora una scelta rischiosa, coraggiosa, non routinaria, apprezzabile dal punto di vista artistico e giustificabile anche sotto il profilo “fisiologico”: a sessant’anni compiuti ha senso aspettarsi ancora i balzi scimmieschi di “Shock the monkey”, le montagne russe del “Secret world tour” o del “Growing up tour”? In Italia, dove Peter gioca praticamente in casa, è più facile per lui gettare il guanto della sfida: per questo, e anche in virtù della cornice irripetibile dell’Arena, Verona è stata scelta come location di un “possibile” Dvd/documento audiovisivo del tour. Grazie a una scenografia minimale ma elegantissima e a sapienti giochi di luce di prevalente tonalità rosso sangue, dominante cromatica dello show e dell’intero “concept” di “Scratch my back”, la resa spettacolare dovrebbe essere assicurata. Quando partono le note di “Heroes” (decisamente meglio in questa versione live) i musicisti sono nascosti da uno schermo LED: al suo sollevarsi, Peter appare sulla sinistra del palco, con l’orchestra raccolta alle sue spalle e il pianoforte a coda collocato sul lato destro; in mezzo si sistemeranno poi le due coriste, Melanie Gabriel e la norvegese Ane Brun, una quasi-Kate Bush dal vibrato operistico che – introdotta come al solito dal generoso “padrone di casa” – aveva aperto la serata con due sue canzoni per voce e chitarra acustica. Il problema, almeno all’inizio, è la voce di Peter: reduce da un forte raffreddore che quattro giorni prima aveva reso difficoltoso lo show di Madrid, Gabriel sembra intimidito e leggermente afono, o forse solo timoroso di giocarsi subito le corde vocali. Il fatto che canti all’aperto a fine settembre con una temperatura di poco superiore ai dieci gradi non aiuta di certo: fatto sta che su “The boy in the bubble”, su “Listening wind” o su “The power of the heart” si rimpiange l’emissione chiara e potente delle versioni di studio, e quel che gli esce dalla gola a volte somiglia a un flebile sussurro. Su “Mirrorball” degli Elbow e su “My body is a cage” degli Arcade Fire ci pensa comunque l’orchestra a dare spettacolo, in entusiasmanti saliscendi tra delicati contrappunti ed esplosioni sonore sotto la bacchetta spiritata del giovane direttore Ben Foster. Peter se la cava meglio in “Flume” di Bon Iver (bellissima), mentre nella succitata “The power of the heart” (Lou Reed) abbandona finalmente la sua postazione fissa per deambulare lungo il fronte del palco; quando, in “My body is a cage”, caccia il primo urlo dei suoi ci si sente decisamente rinfrancati. Impeccabile, come da tradizione, la parte “visual” del concerto: le figure umane di “Listening wind” denudate e passate alllo scanner, la città al contrario di “Downside up”, gli omini stilizzati di “The book of love” (dove Gabriel gioca con la sua immagine con sense of humour), mentre anche la teatralità drammatica di “Après mois” trova la sua migliore espressione sul palco. Non tutti sembrano avere familiarità con il repertorio (molti applausi scattano a canzone non ancora conclusa), e meno male che dopo l’involuta e contorta cover dei Radiohead, “Street spirit”, arriva una piccola e semidimentica gemma melodica dal quarto album, “Wallflower”, a scaldare i cuori. Niente paura: alla ripresa, dopo quindici minuti di intervallo, il concerto sale subito, e molto, di tono. Il pianoforte distilla gocce di note alla maniera di Ravel e Debussy, Peter e i musicisti all’inizio sono visibili solo attraverso le pupille di un animale (un’aquila? O un coyote?): “San Jacinto” è il solito brano maestoso e il finale, tra echi e respiri profondi, regala brividi autentici: Gabriel “scova” la folla con uno specchio riflettente secondo un suo vecchio, semplice ed efficacissimo trucco di scena.
“Digging in the dirt”, così come più tardi “Red rain”, conserva una carica ritmica rock e scatena i primi battimani mentre nella intensa “Signal to noise”, orchestrale già di suo, la Brun fa tutto quel che può per non scomparire al cospetto di Nusrat Fateh Ali Khan. Leggendo stentatamente i suoi foglietti in italiano, Gabriel introduce la canzone con una delle sue riflessioni utopiste, auspicando che le comunicazioni permesse dai telefoni cellulari possano trasformare l’energia umana in una “fornace solare” come certi specchietti collocati per produrre calore tra le montagne dei Pirenei. Segue un altro show dell’orchestra, che entusiasma soprattutto nei colori accesi, violenti, di “Darkness” e nei pezzi più scuri, drammatici e ritmici estratti dal terzo e quarto album (una “Intruder” sottolineata da inquietanti occhi umani ed elettronici, mentre il timer ci informa che sono le 23 e 36; una fantastica “The rhythm of the heat” che scatena giustamente una standing ovation al termine della indemoniata coda orchestrale). “Mercy Street” e “Blood of Eden” sono talmente belle da scivolare senza sforzo sul velluto orchestrale, la sempre emozionante “Washing of the water” regala un breve spotlight a Melanie, Solsbury hill” è il “crowd pleaser” che permette al pubblico infreddolito di scaldarsi e a Peter di accennare persino qualche passo di danza su e giù per il palco. Fine del concerto, dopo il programma extralarge richiesto dal progettato Dvd. E’ tempo di “encore”? Da dietro le quinte, una mano disegna su carta una faccina sorridente suggerendo una risposta affermativa: ecco l’immancabile e sovraesposta “In your eyes”, dove la bacchetta passa momentaneamente nelle mani dell’arrangiatore John Metcalfe (che ha seguito il concerto dietro le quinte), ecco “Don’t give up”, con la Brun ben calata nella parte, e poi il sommesso commiato con “The nest that sailed the sea”, sognante strumentale da “Ovo” (Gabriel al pianoforte) che manda tutti a casa su lunghezze d’onda morbide e tranquille. Pochi visi contrariati, all’uscita, e molto entusiasmo. Speriamo che Peter lo faccia uscire, questo benedetto Dvd, e che non lo ricanti tutto in studio…Noi presenti preferiamo ricordarlo così questo concerto così diverso dal solito, “warts and all”.
Setlist:
Prima parte
“Heroes”
“The boy in the bubble”
“Mirrorball”
“Flume”
“Listening wind”
“The power of the heart”
“My body is a cage”
“The book of love”
“I think it’s going to rain today”
“Après mois”
“Philadelphia”
“Street spirit (Fade out)”
“Wallflower”
Seconda parte
“San Jacinto”
“Digging in the dirt”
“The drop”
“Signal to noise”
“Downside up”
“Darkness”
“Mercy Street”
“Blood of Eden”
“The rhythm of the heat”
“Washing of the water”
“Intruder”
“Red rain”
“Solsbury Hill”
Encore
“In your eyes”
“Don’t give up”
“The nest that sailed the sky”
1 commento:
I commenti italiani dei critici citati , logicamenti sono avbbastanza differenti da quelli dello staff di Peter, è ovvio! Ma alla fine della storia diverso od uguale, perdersi un concerto di Gabriel e tagliarsi le vene è la stessa cosa.....Sono eccessiva , ma l'intelligenza , la maestria ,il genio e l'originalità che ci regala sempre è e resterà unica!
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